il blog di Giorgio Montanari

candidato consigliere comunale a Imperia per Guido Abbo Sindaco

Un bel Melone di Euro

A metà 2010 i giornali titolavano “bilancio ok”, e la Porto di Imperia S.p.A. veniva dipinta coi tratti di una società in salute che dopo un 2009 “in lieve perdita” si apprestava finalmente a chiudere per la prima volta in attivo. Inizialmente crescevano 300 mila euro, che alla chiusura del bilancio (marzo 2011) erano diventati 800 mila, tanto che si arrivò persino a ipotizzare una ripartizione dei dividendi mentre per gli anni seguenti i soci avrebbero potuto disporre di cifre ancora maggiori.

Ora la situazione è chiara, anniluce distante da quel quadro ottimistico che ritraeva una realtà che alla luce dei fatti si è rivelata del tutto inverosimile, diciamo quasi fantascientifica. Sappiamo com’è andata ai cialtroni che allora,  fortunatamente adesso non più, gestivano la società: qualcuno in galera, qualcuno ai domiciliari, qualcun altro raggiunto da più avvisi di garanzia di quanto sia capace a contare.

Attualmente la Porto di Imperia S.p.a. è sull’orlo del fallimento ed è sotto la gestione tutelare di un amministratore nominato dal Tribunale su richiesta del socio Comune di Imperia. Fu uno degli ultimi atti dell’ex Sindaco poco prima del commissariamento dell’Ente. Anche a Strescino, alla fine, si erano aperti gli occhi; chi gli spalancò le palpebre è noto.

Lo scenario attuale vede diversi soggetti in campo, con qualche new entry, e ognuno sta giocando le proprie mosse. Ecco quali sono.

La Porto di Imperia S.p.A.

I lavori sono del tutto fermi. I debiti no, crescono. Attualmente ci vuole un milione di euro per le spese più urgenti come ad esempio pagare l’Ecoimperia, che non tanti giorni fa ha rimosso i cassonetti (con conseguente accumulo di rifiuti sui moli) perché evidentemente non sapeva quale altra strada percorrere per riscuotere gli arretrati. Serve un milione subito, quindi, e altri 5 (o forse 6, o forse 9, dipende dai giorni) per sistemare i problemi strutturali più urgenti come l’allaccio fognario, le autorimesse allagate, e il fondale insabbiato. Altro che dividendi.

Le cifre sono state fornite dall’amministratore giudiziario Dante Benzi, il commercialista genovese scelto dal Tribunale, che dopo aver spulciato per bene i bilanci ha informato il mondo della reale ed estrema vicinanza al tracollo, pronto da un giorno altro a portare i libri in tribunale, come si dice in gergo.

Se in qualche modo non si trovano i soldi per coprire questi buchi, si andrà verso lo stato di insolvenza della società, che significherebbe: fallimento (con annessi eventuali ulteriori procedimenti giudiziari per bancarotta fraudolenta e/o preferenziale) e soprattutto cessazione della concessione demaniale con conseguente perdita di ogni diritto da parte dei titolari dei posti barca, che saluterebbero così per sempre il loro bell’investimento nel porto più bellissimissimo del Mediterraneo. E’ facilmente pronosticabile che partirebbero azioni legali da parte di questi ultimi verso la Porto di Imperia e contro Acquamare, che ha venduto la maggior parte degli ormeggi (quelli rientranti nel proprio 70% della famosa permuta). Il Comune potrebbe avere conseguenze e ripercussioni qualora intervenisse con un provvedimento di revoca o di decadenza che senz’altro sarebbe impugnato al TAR da Acquamare. A quel punto ci sarebbero innanzitutto altri interminabili periodi di paralisi, e nel caso – malaugurato, tuttavia non escludibile – in cui ai ricorrenti fosse riconosciuta la ragione, pure un qualche enorme risarcimento che avremmo ben difficoltà a pagare senza dover illuminare le piazze con le candele.

Per non parlare delle altre negative e non meno gravi conseguenze che, a cascata, interesserebbero i dipendenti della Società, tutte le ditte che operano nel bacino (appaltatori creditori, cantieri navali, etc) e così via in un effetto domino dagli strascichi immaginabilmente lunghi.

C’è comunque chi reputa questo epilogo come una delle situazioni tutto sommato “meno peggiori”: sarebbe un reset completo, e in uno scenario del genere le aree demaniali si scrollerebbero di dosso i soggetti manifestamente non in grado di garantire la gestione, e a maggior ragione l’ultimazione, del porto. A quel punto ciò che è stato costruito fin’ora – nel bene o nel male – tornerebbe nelle disponibilità del demanio e di conseguenza il Comune potrebbe avviare una procedura per scegliere un nuovo soggetto a cui far assumere il personale e gestire/ultimare le opere, dopo averle adeguatamente ridimensionate e ridestinate.

Benzi lancia da qualche settimana degli ultimatum che fanno  intendere che o ci si mettono dei soldi adesso, oppure mai più. Dei tre soci che compongono la Porto di Imperia S.p.A., che sono Comune, Acquamare e Imperia Sviluppo, è stato chiaro sin da subito quale fosse l’unico a cui poter chiedere di mettere le mani in tasca per tirare fuori qualcosa.

Acquamare

Acquamare vuole uscire di scena prima possibile, abbandonando Imperia, gli Imperiesi, e il porto più fantasmagoricissimo del Mediterraneo. Uno dei motivi è la posizione giudiziaria di Caltagirone, che nonostante non sia più formalmente amministratore di Acquamare e della controllante Acquamarcia (né lui né i suoi familiari), non viene scarcerato perché secondo i giudici riuscirebbe ancora a pilotare le aziende del gruppo. Acquamare inoltre non ha più alcuna credibilità (se mai ce l’ha avuta), e secondo molti non avrebbe più i mezzi finanziari per continuare a investire nell’affaire: com’è noto ci sono stati problemi anche a Fiumicino e più in generale il gruppo di Caltagirone ha grosse esposizioni con le banche. Senza contare che una fetta bella grossa del bottino se la sono già portata via, con la vendita degli ormeggi più grandi (e redditizi).

La società romana ha proposto una exit-strategy che per qualche verso ricalca quella che l’anno scorso aveva proposto l’allora Presidente della Porto di Imperia Stefano Vinti. Si tratta di uscire dalla Porto di Imperia lasciando agli altri soci le proprie quote più i diritti sui posti barca ancora invenduti e sugli immobili che devono essere ancora ultimati (e vorrei ben vedere) così come l’onere di terminare (o far terminare a qualcun altro) la costruzione, con la rescissione del contratto che individua in Acquamare il general contractor.

D’altro canto Acquamare lascerebbe volentieri a Imperia anche tutti i debiti con le banche per la grossa ipoteca che stipulò all’insaputa di tutti quanti prima di iniziare i lavori. Il grosso problema in questo caso, e non solo in questo, non è tanto l’ammontare dei debiti (che comunque sarebbe di almeno 130 milioni secondo quel che dicono loro stessi, mica bruscolini) ma piuttosto l’assenza di qualsiasi garanzia reale che poi la concessione demaniale non venga revocata e tutto si blocchi lo stesso. Non è affatto da escludere, infatti, che gli uffici del Comune (anche alla luce delle varie sentenze a cui prima o poi arriverà il TAR) revochino definitivamente la concessione la cui validità potrebbe essere formalmente viziata per tutta una serie di motivi vecchi e nuovi. Ne deriva che di sicuro e inopinabile ci sarebbero soltanto i debiti. Tutto il resto sarebbe un terno al lotto, compresa l’ultimazione delle opere che secondo le cifre snocciolate da Acquamare si autososterrebbe con il valore di mercato delle opere stesse; ma poiché s’è già visto che forse costoro non sono così bravi a far di conto, la reale sostenibilità dell’operazione andrebbe vagliata attentamente.

Ad ogni modo questa opzione, almeno per ora, non è stata presa in considerazione da nessuno.

Comune di Imperia

In questa fase il Comune di Imperia è più spettatore che altro. E non è tanto una conseguenza del commissariamento e della contestuale vacatio politica, bensì dell’assenza di mosse che non comportino l’esborso di capitali. E capitali da investire il Comune non ne ha, né mai potrà averne. Si dà il caso che è proprio questo il motivo per cui vennero chiamati i privati, che avrebbero dovuto metterci il grano e il rischio d’impresa per raccogliere gli utili (possibilmente senza combinare tutti questi pasticci).

Ora, per quanto la Porto di Imperia S.p.A. sia al 33% del Comune, al Comune in caso di fallimento tornerebbe indietro – di rimbalzo con doppia sponda – il pallino della nuda concessione demaniale, che in quantità (in qualità è tutto da vedere) è più di quanto venne conferito dal Comune all’epoca della costituzione della Spa.

Confindustria

Confindustria ha detto quasi nulla per lungo tempo, nonostante fosse difficile non accorgersi del disastro – anche solo dal punto di vista puramente industriale ed economico – in cui stava finendo l’operazione. Disastro cui hanno partecipato direttamente e/o indirettamente una bella riga di loro associati. Ma tant’è. Adesso invece si sono calati nel ruolo di conciliatore-antidefault-procedure-and-industrial-player-meetings-in-our-luxury-Genoa-headquarters-problem-solver-and-organizer. Una supercazzola che tradotta in italiano significa: “organizziamo noi gli incontri tra le parti, poi ogni giorno usciamo sui giornali buttando lì delle proposte più o meno (im)percorribili, così se una di queste dovesse incidentalmente essere perseguita ci potremo prendere i meriti”. Gli industriali, inoltre, sono più o meno gli unici che sostengono a gran voce che il fallimento della Porto di Imperia è l’unica cosa che va assolutamente evitata come la peste, e che sarebbe un vero e proprio disastro per la città. Sicuramente sarà un disastro per i titolari dei posti barca, e vien da chiedersi se non è che – per caso – abbiano degli associati anche tra questi.

La prima soluzione proposta, che vedeva una nuova maggioranza della Porto di Imperia (la Imperia Sviluppo? le banche? i venusiani?) si è poi trasformata quando qualcuno gli ha fatto notare che così il Comune sarebbe stato tagliato definitivamente fuori. Allora hanno rimodulato la strategia, proponendo questa: i titolari dei posti barca si mettono in società tra loro; poi entrano nella Imperia Sviluppo e apportano capitali; con questi capitali si ricapitalizza la Porto di Imperia che così paga i debiti; nel frattempo Acquamare deve uscire di scena portandosi via i propri debiti, e vissero tutti felici e contenti. Il tutto condito da enunciazioni di principio mai sviscerate nei dettagli tipo “rilevanza dell’interesse pubblico”, “Comune interlocutore privilegiato”, “riconfigurazione dell’assetto societario della Porto di Imperia spa risanata”, “il Comune deve avere una quota non inferiore alla maggioranza assoluta”, “si devono perfezionare dei patti parasociali che garantiscano la più idonea perseguibilità delle funzioni citate”, “priorità assoluta al completamento delle opere”, “che mondo sarebbe senza Nutella”, etc.

I titolari dei posti barca

L’ipotesi di Confindustria, in pratica una sorta di azionariato diffuso di titolari dei posti barca, dà per scontate una serie di condizioni e situazioni che in realtà tanto scontate non sono. Ad esempio: come si fa ad imporre a una società privata (Imperia Sviluppo) di far entrare soggetti terzi? E chi l’ha detto che questa società sia solo ed esclusivamente attiva nell’affaire porto e che non sia anche in altri business in cui questi terzi non c’entrerebbero un bel fico? Oppure, ancora peggio, chi può escludere che non abbia già di per sé dei problemi di bilancio? Ed è anche tutto da dimostrare che chi ha già speso centinaia di migliaia di euro (o anche qualche milione) per comprare il posto barca che ora rischia di perdere, sia così propenso a tirare fuori altri capitali; d’altronde perseverare è diabolico anche per i facoltosi russi/australiani/caymanensi che investirono nel nostro porto. Per cosa? Per tentare il salvataggio di una società la cui esistenza (e le cui concessioni, e la cui condizione debitoria, e la cui compagine, e il cui management) sono così incerti? Sarà.

Per inciso, quando si parla genericamente di “titolari” non si capisce bene quali e quanti siano, perché solo un paio di giorni fa l’APPI (Associazione di titolari) sosteneva di non essere ancora mai stata invitata a nessun tavolo.

Imperia Sviluppo

Sta giocando un ruolo fondamentale, perché è l’unico socio che attualmente può sulla carta scongiurare il fallimento della Porto di Imperia mettendoci del capitale fresco. La maggioranza all’interno di Imperia Sviluppo è riconducibile a Beatrice Cozzi Parodi, alla quale secondo le ricostruzioni giornalistiche spetta metterci la fetta più grossa di questo urgente, indispensabile, improrogabile, vitale (e, ricordo, soltanto iniziale) milione di euro. Qualche giorno fa sembrava che un accordo fosse stato raggiunto, e che i soci – tutti imprenditori locali – fossero in sintonia. La situazione è velocemente cambiata, perché “nostra signora dei porticcioli” (come viene simpaticamente appellata per la propensione all’edilizia au bord de la mer) si sarebbe tirata indietro. In realtà le cose non stanno proprio così, sempre stando alle ricostruzioni giornalistiche (che spesso sono contraddittorie persino con sé stesse).

L’accordo era quello di un aumento di capitale nell’Imperia Sviluppo in modo tale da avere in cassa la cifra necessaria a mettere una prima toppa al buco nella Porto di Imperia. Si dice 800.000 € dalla Parodi, 140.000 € dai Carli, e qualche altro spicciolo da soci minoritari. Ecco da dove sarebbe dovuto uscire il primo milione, a cui ne sarebbero seguiti altri solo all’avverarsi di condizioni specifiche e di difficile concretizzazione: garanzia del rinnovo della concessione e cantieri liberi dalla presenza di Acquamare. Per il primo punto è impossibile avere garanzie, perché il rinnovo della concessione (già negato a suo tempo) è un atto tecnico che gli uffici del Comune prendono in autonomia secondo quello che risulta dalle carte; anche volendo, non c’è nessuno che può assicurare a priori che le condizioni per il rinnovo (che poi per la maggior parte dipendono dalla società) si avverino.

La Parodi deve essersi resa conto solo all’ultimo che le garanzie di cui sopra erano irrichiedibili e quindi inconcedibili, e che il rischio di non rivedere nemmeno un euro era eccessivo (parentesi: anche di lei si dice da tempo che non se la passi benissimo) e così all’ultimo momento ha ritrattato. Però non si è rimangiata tout court la predisposizione ad aprire il portafogli, ma solo la modalità di conferimento. Ha pubblicamente annunciato – e prendiamo per buona e veritiera questa versione almeno fino a quando i fatti la smentiranno – di preferire all’aumento di capitale il conferimento tramite un finanziamento infruttifero. Tra i due metodi c’è una sostanziale differenza, perché quest’ultimo è un vero e proprio prestito a scadenza che un socio può effettuare a beneficio della società, mentre un aumento di capitale non dà alcuna garanzia di recupero dell’investimento. In parole povere, la mia interpretazione è che abbia voluto avere la certezza di rientrare dell’esborso entro un determinato lasso di tempo, anziché mettere 800.000 euro (e questi solo come inizio) in un’operazione che anche un bambino capirebbe essere del tutto incerta e rischiosa sul piano del ritorno dell’investimento. Immaginiamoci uno scenario in cui, nonostante questo primo milione di capitale aggiunto dalla Imperia Sviluppo, la Porto di Imperia fallisse ugualmente (ipotesi tutt’altro che peregrina, vuoi perché dopo nessuno ci mette gli altri 5, vuoi per altri motivi). In questo caso il famoso milione andrebbe perduto. Ma se a metterci la grossa parte è stato un socio (Parodi) tramite finanziamento infruttifero, Imperia Sviluppo in un modo o nell’altro dovrebbe trovare il modo di restituirglieli fino all’ultimo centesimo. E se, per di più, il capitale della Imperia Sviluppo dovesse esser stato nel frattempo aumentato tramite il subentro dei titolari dei posti barca (o dei venusiani), è facile capire dove andrebbero a finire le quote di capitale apportate da questi ultimi.

A queste incertezze ne aggiungo un’altra: ammesso e non concesso che all’interno di Imperia Sviluppo si riescano a mettere d’accordo in tempo utile sul metodo con cui raccogliere il milione, nessuno ha ancora definito la modalità con cui verrebbe spostato nella Porto di Imperia. In caso di aumento di capitale, il Comune (perché non può) e Acquamare (perché oltre a non potere non ne avrebbe la benché minima intenzione) non ne prenderebbero parte, sicché entrambi verrebbero schiacciati dalle quote di Imperia Sviluppo che raggiungerebbe la maggioranza assoluta (se non totale) della Porto di Imperia. Viceversa, in caso di altro tipo di conferimento, un nuovo debito si accumulerebbe sulle spalle della Società che prima o poi dovrebbe ripagarlo.

Se invece l’operazione andasse a buon fine (cioè: Porto di Imperia non fallita e operante) comunque la Sig.ra Parodi avrebbe dalla sua di aver salvato la baracca nel suo momento peggiore. Probabilmente, a quel punto, il titolo di “nostra signora dei porticcioli” le verrebbe conferito ufficialmente tramite Bolla Papale mentre moli e pontili verrebbero costellati di edicole votive a sua imperitura memoria et gloria.

Tra qualche giorno i soci di Imperia Sviluppo si riuniranno nuovamente, e a quel punto si capirà se stanno giocando a far melina oppure se interverranno seriamente per salvare la situazione, o almeno per provarci.

In linea generale, per concludere, va messo in conto che difficilmente si potrà trovare una soluzione che accontenti tutti quanti, per questo semplice motivo: se è vero – come sostengono le indagini – che qualcuno ha fatto il furbo e si è intascato qualche soldo di troppo, significa che su tutta quanta l’operazione grava un “ammanco” che probabilmente non verrà mai recuperato. Di conseguenza tutta l’operazione ne esce zoppa; bisogna solo vedere chi sarà a subire gli effetti di questo insanabile squilibrio.

 

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Un commento

  1. Giorgio complimenti per il post, soprattutto per la sua esaustività.
    Andrea

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