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Scarpe sì, scarpe no

Da La Stampa del 03/03/2010 - Clicca per ingrandire

Metto i piedi nel piatto (modo di dire quantomai in tema) per dire la mia su quella che in fondo non è altro che una storiucola poco importante che poteva accadere a Imperia come in qualsiasi altra città; ma l’occasione va presa perché spesso sono le storiucole di questo tipo che fungono da spunto per schiarirsi le idee, e vedere come applichiamo – o applicheremmo – alla vita reale quelle che sono le intenzioni e le convinzioni di ciascuno a proposito di integrazione e di relazioni sociali.

La vicenda, così come raccontata da La Stampa di ieri, si riassume così: un bambino ha la tosse e viene chiamato il medico. Arriva una dottoressa, a cui viene chiesto di levarsi le scarpe per entrare in casa. Lei si rifiuta, ma visita ugualmente il bambino. Un parente del bambino, che è imam e fondatore dell’associazione italo-turca, chiama il responsabile del 118 per lamentarsi.

La discussione si è notevolmente sviluppata su Imperiaparla, incentrandosi fondamentalmente sulle due prevedibili tesi: il medico ha fatto bene, oppure il medico ha fatto male.

A me è capitato di essere ospite in casa di qualcuno che mi ha gentilmente chiesto di levarmi le scarpe. E io ho gentilmente eseguito, per rispettare un’abitudine che non aveva certamente origini religiose. Che poi in realtà, a ben vedere, sono motivi pratici, igienici, tutt’altro che mistici: semplicemente i mussulmani sul pavimento ci pregano anche, chinandosi fino al suolo. Ma comunque sia, per ovvie ragioni la religione entra nel discorso, e si interseca con considerazioni che riguardano la cortesia e la tolleranza.

Ora, saremo tutti d’accordo che non c’è legge che imponga ad un medico di tenersi tassativamente le scarpe, così come non si può obbligare chi non ne ha voglia a privarsi delle proprie calzature. Ed è qui che dovrebbe entrare in gioco la tolleranza, il venirsi incontro. Domandare è lecito, rispondere è cortesia. Cortesia, appunto, questa sconosciuta.

Reputo quasi folle il ragionamento del “siamo in Italia”. Bella scoperta. Vien da dirlo proprio perché in questo caso si parla di una famiglia di immigrati. Mi chiedo, e se non lo fossero stati? Si dà il caso che ci siano delle persone, proprio in italia, che sono solite tolgliersi le scarpe quando entrano in casa propria. Magari non lo sappiamo ma proprio i nostri dirimpettai, liguri da generazioni e dialetto-parlanti, hanno anche loro questa bizzarra usanza di gironzolare scalzi tra le mura domestiche. Oddio, sono intorno a noi!

E rifuggo il pensiero che in casa propria ognuno possa dettare la propria legge. Almeno, è vero fino ad un certo punto, ed è ammissibile fino a quando tale “legge” non lede la libertà o la dignità altrui; nel caso specifico non è stato chiesto nulla di così assurdo o estremo, niente che non chiediamo anche “noi”. In casa d’altri ci si toglie il cappello, in chiesa non si sghignazza, in piscina si tiene la cuffietta, a teatro si fa silenzio, al ristorante è buona creanza evitare di ruttare dopo ogni boccone. E in casa di chi lo desidera ci si può anche togliere le scarpe. Dov’è lo scandalo?

Inconcludente, poi, sostenere che “il medico lo paga lo Stato, e ancora deve sottostare alle esigenze di chi lo chiama?”. Ne deriverebbe che se anziché del medico si fosse trattato di un idraulico, di un riparatore di frigoriferi, o di qualsiasi altro professionista non mutuabile, allora la richiesta sarebbe stata accettabile. Come dire che sono i soldi a far la differenza, a spostare il confine dell’accondiscendenza. Se non pago, non posso nemmeno chiedere. Mi accontento del medico gratuito dell’ASL? Si terrà le scarpe. Voglio un medico disposto a slacciarsi le stringhe? Ci sarà il sovrapprezzo. Sul serio il rispetto delle mie abitudini è quantificabile?

L’argomentazione più gettonata suona più o meno così: “se queste sono le regole, ci si deve adeguare”. E faccio notare che è lo stesso per entrambe le posizioni. Ovvero c’è chi dice che ognuno comanda in casa propria, e c’è chi dice che invece “in Italia funziona così”. Già, ma così come? L’Italiano non è, non è mai stato, e non sarà mai un pignolo devoto di un qualsivoglia protocollo comportamentale. Ce ne freghiamo di tutto, del bon-ton, del galateo e del codice stradale. E qualcuno vuol seriamente convincermi che la nostra sia una “Repubblica fondata sul lavoro e sul tenersi le scarpe in casa d’altri”? Non fatemi ridere.

Non so dire se c’è un modo corretto in cui le cose sarebbero dovute andare. Probabilmente no. Non condanno il medico, e neanche chi chiedeva solo un piacere che sarebbe costato pochissimo. D’altro canto non possiamo nemmeno sapere il come è stato chiesto, e anche questo può aver avuto la sua importanza. Spero di sbagliarmi, tuttavia non mi tolgo dalla testa che il fatto che si sia trattato di immigrati – per di più mussulmani – rappresenti un fattore determinante nella risoluta presa di posizione del medico; ed alla fine è questo il dettaglio che lascia un po’ di amaro in bocca e che diventa il nocciolo della questione. Perché restare nella propria posizione, nella fattispecie con le scarpe ben allacciate, non è che l’inequivocabile simbolo di un muro che in quella occasione si sarebbe potuto abbattere con un impegno minimo. Se pensiamo che l’integrazione sia un imperativo “si adeguino” non andremo mai da nessuna parte.

Se esiste un percorso che possa rendere questa benedetta integrazione qualcosa di più di un vocabolo alla moda, è quello che porta a fare ciascuno un passo verso l’altro. Soprattutto se l’altro ci sembra distante. Qualcuno questi passi li farà con le scarpe, qualcun altro senza. Non importa, basta solo avvicinarsi, anche poco alla volta.

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